Orologeria sostenibile

Il “reuse” e la sostenibilità, sociale e ambientale, sono concetti sempre più presenti nell’industria orologiera. Si è iniziato con la costruzione di fabbriche a basso impatto ambientale e autosufficienti dal punto energetico. Poi, crescendo la necessità di coniugare il lusso a valori condividibili da un pubblico sempre più attento, l’industria si è adoperata a garantire la tracciabilità della filiera per l’approvvigionamento di oro e pietre preziose. Fino ad arrivare al riciclo di questi stessi materiali. Esempi noti sono l’oro Fairmined di Chopard e l’impiego di solo oro riciclato che fa Bulgari.

Passando a sostanze meno nobili, l’impegno ambientale delle Case si è rivolto in prima istanza a limitare la produzione di plastiche e materiali non riciclabili per i cinturini. Pioniere in questo campo è stata l’italiana Morellato, con la produzione di cinturini realizzati con pelli riciclate o in materiali derivanti al 100% dalle bottiglie di plastica. Per arrivare fino al riciclo dell’acciaio.

L’elenco si allunga negli ultimi mesi, con la comunicazione dei brand incentrata sempre più sull’ecosostenibilità, spinta forse dall’attualità del New Generation Europe che richiede alle nazioni europee di investire i capitali del fondo post crisi pandemica in politiche a favore della green economy.

Temi attuali, ma anche cari alle nuove generazioni (e quindi all’industria) che, come mi spiegò Ferruccio Lamborghini junior un anno fa, non condividono più con i teenager degli anni ’80, ’90 e perfino 2000, il pressante desiderio di possedere una macchina o di un motorino. Salvo alimentare le discariche di materiale elettronico grazie alla rincorsa all’ultimo modello di smartphone. Anche da questi rifiuti è ricavato l’oro riciclato impiegato poi in gioielleria: un piccolo contributo per liberare la Terra da scarti che fanno male tanto quanto le odiate bottiglie di plastica.

Ben vengano, allora, le iniziative sostenibili dell’industria orologiera, che partecipano alla creazione di oggetti – meccanici – che il “reuse” ce l’hanno nel Dna, passando di generazione in generazione senza soccombere all’obsolescenza programmata.

Dody Giussani 

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